sabato 1 giugno 2013

Corpus Domini


Corpus Domini

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6, 51-58)


In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».

Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.

Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Ecco: la vita. In connessione col mangiare sta la vita: vita in che senso? Anzitutto in senso molto concreto: questa vita che oggi viviamo e che è bloccata dalla morte, viene ricuperata con la risurrezione: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. “Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”. All’ultima orazione della messa funebre diciamo: “Concedi, Signore, a questa persona, che nei giorni della sua vita mortale si è nutrita di questo cibo di immortalità, di partecipare al banchetto eterno imbandito nei cieli”. Si parla di risurrezione e di vita perenne. In fondo mangiamo di un corpo risorto, ci nutriamo di una vita che è già nell’eternità!


Noi avremo la vita vera domani solo come risultato di una partecipazione alla vita divina di Cristo che oggi l’Eucaristia alimenta in noi. L’immagine usata da Gesù è quella della vite e dei tralci. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue - è un’altra affermazione di Gesù oggi - rimane in me e io in lui”. Questo “rimanere” è un rapporto di partecipazione reale alla natura divina del Figlio Unigenito, divenuto primogenito di molti fratelli, che abilita il nostro stesso essere umano a vivere da figli di Dio. Ma “rimanere” è parola che evoca amicizia e scelta personale: proprio a questa crescita d’intimità mira la comunione che facciamo alla messa.


Una intimità che arriva ad un coinvolgimento sempre più pieno, quale esiste tra il Padre e il Figlio stesso. Ecco come si esprime Gesù oggi: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Gesù vive per la vita che riceve dal Padre, ma anche “per” Lui, cioè tutto rivolto a Lui; così l’effetto dell’Eucaristia è per noi un farci vivere in forza di Gesù, ma anche rivolti a Lui, per Lui, coinvolti con Lui nell’avventura della sua missione di salvatore del mondo. L’Eucaristia, si dice, crea la comunione e fonda la missione.
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“Come può costui darci la sua carne da mangiare?”, obiettano i Giudei. Possibile, diciamo noi, che tutta l’opera di salvezza di Dio si incanali in segni così modesti come è questo pane e questo vino che sta sull’altare della messa?
E’ inutile discutere la pedagogia di Dio. Sono i fatti che contano. Se non sempre si può dire che chi fa la comunione tutti i giorni è santo, si deve dire che il santo nasce sempre dalla comunione. Ha detto Gesù: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 4-5).


Vita donata per gli altri

"Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue" (Mc14,22.24) so che non è solo il suo donarsi a me ma anche il mio donarmi alla mia compagna e al mondo intero. Vivere una vita eucaristica non vuol dire andare in chiesa tutti i giorni. Vuol dire vivere facendo della propria vita un dono d'amore: mangia, abbeverati, riposati, curati, al mio corpo e alla mia casa. Perché se non posso dire a nessuno: "Questo è il mio corpo per te", che vita è? Come si può vivere senza donarsi a qualcosa o a Qualcuno? Se non faccio della mia vita un dono, la mia vita è un dono inutile. Perché se non posso dire a nessuno: "Questo è il mio sangue per te", la mia fatica, la mia lotta, la mia passione, il mio amore, che vita è? Se non posso donare, esprimere, dare ciò che ho di più profondo, intimo, mio, a che serve? Il pane è fatto per essere mangiato. Tenuto in cassetto diventa duro e non serve a nessuno. Il vino è fatto per essere bevuto e assaporato. Tenuto in disparte, col tempo diventa aceto, vecchio e non serve a nessuno. La vita è fatta per essere spesa, donata, altrimenti tenuta per sé è inutile. La felicità non è donare ma donarsi: allora si ha chiara e certa la sensazione di essere utili e che la propria vita abbia un senso profondo per sé, per il mondo e per l'universo. La felicità è poter dire: "Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue": mangiatene e bevetene.

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